Corte di giustizia Ue sul caso Harley Davidson. Delocalizzazione, elusione fiscale anche per il settore doganale
di Sara Armella
Il trasferimento dell’attività produttiva dagli Stati Uniti verso un Paese terzo non esonera i prodotti dall’applicazione dei dazi doganali supplementari previsti in Europa per le merci made in USA, è questa la conclusione raggiunta dalla Corte di giustizia nel caso Harley Davidson. Con la sentenza 21 novembre, causa C-297/23, i giudici europei aprono la strada all’applicazione dell’elusione fiscale anche al settore doganale stabilendo che, se lo scopo della delocalizzazione è evitare l’applicazione dei dazi previsti per i beni realizzati negli Stati Uniti, a nulla serve aver utilizzato una fabbrica in Thailandia come sito di produzione.
Un principio che non mancherà di determinare una serie di effetti, considerata la valenza interpretativa delle pronunce della Corte di giustizia e la loro applicazione anche al di fuori del singolo caso concreto. Fino a oggi, infatti, l’origine doganale di un prodotto si è fondata su indici di natura oggettiva, e dunque tracciabili e riscontrabili, rappresentati dal luogo di effettuazione dell’ultima lavorazione sostanziale, economicamente giustificata e idonea a produrre un oggetto nuovo o una fase importante del processo di lavorazione. L’origine doganale è confermata, poi, da certificati di origine rilasciati dalla Camera di commercio dello Stato di produzione.
La certezza dell’origine doganale è fondamentale, poiché, in fase di importazione, il trattamento daziario è determinato anche dall’origine del prodotto.
L’inserimento della variabile dell’elusione dei dazi da parte del fornitore estero del prodotto, come fattore idoneo a modificare l’origine doganale, introduce un elemento di profonda incertezza per le imprese che si approvvigionano dall’estero, le quali che saranno chiamate a una ancora più complessa due diligence, che superi i dati fattuali – e i certificati rilasciati dalle Camere di commercio estere – per esplorare le ragioni dell’insediamento produttivo in un Paese terzo.
La pronuncia disattende le conclusioni rassegnate dall’Avvocato generale presso la Corte, secondo cui la scelta di evitare l’applicazione di oneri doganali non dovrebbe essere, in quanto tale, né illegittima, né censurabile, in quanto rientrante nel diritto del soggetto passivo di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale. Ad avviso dell’Avvocato generale Kokott le norme in materia di origine non possono essere lette nel senso di contrastare ogni tentativo di risparmio sui dazi doganali. Se non vi è una manipolazione dell’origine, infatti, il semplice risparmio sui dazi non dovrebbe configurare un’elusione della normativa doganale.
La Corte di giustizia ha respinto tale ricostruzione, confermando invece la posizione della Commissione europea, sull’assunto che l’articolo 33 Reg. 2446/2015 prevede che la lavorazione del prodotto non è economicamente giustificata (e, pertanto, non consente il riconoscimento dell’origine doganale) se lo scopo è evitare l’applicazione di una misura unionale. In altri termini, non è legittimo riorganizzare la propria catena produttiva, per evitare l’applicazione di un maggiore dazio.
Il verdetto della Corte di giustizia nei confronti di Harley Davidson è destinato ad avere un forte impatto sulla certezza dei rapporti giuridici, rendendo più rischioso operare con l’estero, e non mancherà di riverberarsi sull’annunciata guerra dei dazi che il neoeletto presidente Trump ha già anticipato di voler avviare nei confronti dell’Unione europea.